Dopo un bicchiere d’acqua e uno schiaffo improvvisamente datomi da me medesimo, prendendomi assolutamente di sorpresa, mi sono ridestato dal mio vago vaneggiamento. Michela mi ha guardato ridacchiando.
“Sapevo che con l’età ci si rimbambisce ma tu stai proprio fuori” – ha ragione, sono fuori. Sono fuori di minimo cinque anni, devo rimediare, devo ritornare in carreggiata, tanto seppur la prenderanno male per me non cambierà niente, io sono ciò che sono non posso modificarmi.
“Grazie sorellina, le tue parole mi hanno cambiato la giornata” – dico mentre scappo via.
“Guarda che se ti piace così tanto ti posso insultare in tutti i modi che vuoi: idiota, cerebroleso, decrepito, rivoltante, inutile e pure tanto tanto scemo.” – mi urla con dolcezza. Chi può dire di avere una sorella così soave come la mia?
Arrivo in cucina senza passare per il soggiorno, saluto la nonna che dormicchia sulla sedia a dondolo. Abbraccio mia madre che non riesce a parlare per la forza con cui l’ho stretta a me e le prendo la mano. La trascino con dovuta forza fin da mio padre, che è sul balcone a prendere questi ultimi raggi di sole decembrino. Tutti e due sono un po’ straniti. Lui parla per primo.
“Giovanotto, sono questi i modi? Le donne non si prendono così, ci vuole la clava. Te l’ho sempre detto!” – e ride.
“Giacomo, la vuoi finire? Ti ho sempre ripetuto di non tirar fuori certe battute quando ci sono tutti i parenti!” – lo redarguisce mia madre mettendosi a posto i vestiti, sgualciti durante il cammino forzato.
“Scusami, hai ragione cara. Giovanotto, non ci vuole la clava, ci vogliono le buone maniere, un invito a cena e un conto pagato ovviamente da te. Poi lei ti da il bacetto della buonanotte e tu torni a casa felice.” – rettifica mio padre con un sorriso strano.
“Ecco. Ci vuole gentilezza.” – fa mia madre accentando la ritrattazione.
“E così lei sale nel palazzo, prende l’ascensore, bussa al vicino rozzo, sporco e pure manesco, e ci fa cose che voi umani non potete nemmeno immaginare.” – sghignazza soddisfatto.
“Giacomo, se le dici a tavola, mi arrabbio di brutto eh!” – lo minaccia con il suo dito accusatore.
“Ah, Letizia piccola mia, non farei mai qualcosa che ti possa far stare male. A parte cucinare per te, sia chiaro. Comunque, giovanotto, che problemi hai? Che cosa è questa fretta?” – ecco: è giunto il momento. Quello che ho aspettato per anni e che ho rimandato a lungo. Ora glielo dico e tutta la mia esistenza si modificherà. Spero in meglio. Di sicuro potrà pure andare peggio. Ho paura. Una fottuta paura. Ora gli dico che mi sono fidanzato con una donna, rimando ad un’altra volta, ad un altro anno. Il 2012 si concluderà con la fine del mondo, tanto vale dirglielo il 21 Dicembre no? No. Sono forte. Sono deciso. Sono spacciato.
“Mamma, papà, sapete quanto vi voglio bene no?” – dico come premessa. Mio padre sbotta.
“Ecco, gli servono soldi. Quante volte te l’ho detto che puoi chiedere anche via telefono, se non ti aiuto io chi lo deve fare? Quanto ti serve? Ce l’hai un lavoro no? Cosa ci fai con quello che guadagni, ah giusto: non è affar mio. Chissà quante ne castighi e quanto spendi di contraccettivi, figlioletto adorato.” – tira fuori il portafogli, lo fermo prontamente.
“No, papà, non è questo.” – faccio con espressione seria.
“Non mi dire che…sei incinta! Cioè: aspetti un bambino! E lei dov’è? E’ fuori? Oh mio Dio, sono tutta eccitata, la debbo conoscere. E’ bella? E’ formosa?” – chiede mia mamma quasi piangente.
“C’ha le tette grosse?” – aggiunge mio padre facendo un gesto facilmente intuibile.
“Ma è possibile mai che in questa famiglia non si possa parlare per più di due minuti senza essere interrotti? No. Non sono incinto, mamma. E non ho una fidanzata.” – alzo la voce e si bloccano. Mia mamma cerca di parlare, poi ci ripensa e chiude la bocca. Mio padre attende anch’esso in silenzio.
“Mamma, papà, voi sapete quanto io vi voglia bene e quante volte io vi abbia ringraziato in questa vita che finora ho vissuto. Vi ho ringraziato, mentalmente ed enormemente per avermi fatto crescere seppure tu, mamma, avevi diciannove anni e tu, papà, solo ventuno. Mi avete voluto e cresciuto e siete andati avanti, con un amore fortissimo, sfidando il mondo. E per questo mi sono sempre sentito in debito con voi. Successivamente mi avete amato, educato e sempre sostenuto in qualsiasi scelta abbia mai fatto. Oggi vengo a dirvi una cosa che mi cambierà, ci cambierà. Mamma, papà, non voglio farvi del male ma ho paura che accadrà. Sono gay. E non mi vergono di esserlo.” – bum.
Mia madre l’ha presa benissimo. E’ solo svenuta. Lo fa sempre per le grandi occasioni, ciò significa che il pensiero di un eventuale nipote non l’aveva sconvolta così tanto. Mio padre mi guarda ancora con quell’aria giocosa mista a odio profondo. Raccoglie mamma a terra come se fosse una reliquia sacra, e la adagia delicatamente sul divano. Poi inizia a sbraitare nei miei confronti.
“Tu mi odi. Dillo: papà io ti odio.” – fa una pausa – “Perché, cribbio, sono trent’anni che aspetto il momento in cui mi porti a casa una tizia che io possa squadrare da buon padre guardone e cosa mi succede? Mi diventi gay! Già devo sopportare che le tue sorelle si dovranno fidanzare sicuramente con emeriti idioti, perché è quello che succede a tutti i padri ma tu, figlio mio, non potevi darmi la gioia di una bella ventenne a casa? Una con tutte le curve al posto suo che ondeggiava con una gonna larga e rideva come l’aurora d’estate, e i suoi lunghi capelli biondi si dimenavano di qua e di là mentre la brezza marina si udiva in sottofondo? No. Tu devi essere controcorrente per ammazzare di crepacuore tuo padre, bel figlio ho cresciuto, sant’Iddio.” – urla facendo voltare tutti i presenti, comprese le mie sorelle, ormai attirati dal trambusto.
“Tu” – urla mio padre, indicando Marta – “Tu mi diventi lesbica. Perché io esigo, da buon padre di famiglia, una nuora, Cristo Santo! La esigo! Fosse l’ultima cosa che chiedo sulla faccia della terra. E la voglio bassa, con capelli biondi e con forme provocanti. Scrivitelo su un foglio e inizia a ricercare, sono stato chiaro?” – mia sorella ci pensa un po’ su e sorride riuscendo a farlo calmare.
“E se ha i capelli neri?” – chiede, sempre ridendo.
“Massì” – biascica lui – “pure rossi, non son mica razzista, suvvia!” – ora si è calmato definitivamente. La parte più brutta è passata.
Il silenzio colpisce l’intera sala per più di venti minuti. Nel frattempo mia madre rinviene, ricorda, risviene. Michela corre a prenderle la boccettina con i sali, li abbiamo sempre avuti in casa per queste particolari occasioni. Mia mamma ha sempre sofferto di questo disturbo strano. Al mio primo compleanno cadde nella torta per l’emozione, così fece anche alla mia comunione e quella di Marta. Quella di Michela non c’è mai stata, i miei ad un certo punto capirono che la fede è qualcosa che scegli non che ti viene imposta dai tuoi genitori e ora lei segue un suo percorso che forse, un giorno o l’altro, la porterà da qualche parte.
I sali arrivano, mamma ritorna in sé. Papà le accarezza la fronte. Lei controlla la situazione, vede le facce dei parenti sconvolte, e si rialza in un secondo.
“Allora, mio figlio è gay ma il menù non cambierà. Per fare le dovute precisazioni: non si accettano battute durante i contorni. Né zucchine, né melenzane dovranno essere oggetto di scherno e risate e, mi raccomando, lasciate poi stare le banane. Detto ciò, tra cinque minuti tutti a tavola.” – e vola in cucina.
(3-Continua)
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