venerdì 4 giugno 2010

Fermata a richiesta



L'avevo scritto un pò di tempo fa, in quella fase che Stephen King chiamerebbe "con la porta chiusa". Poi ho provato ad aprire la porta, saltando un passaggio fondamentale: quello di una seconda stesura.
E l'ho odiato, ripudiato, eliminato dalla mia mente. Fino a quando, oggi, mi sono detto che forse potrebbe essere arrivato il giorno di metterlo sul blog.
Così, senza seconda stesura. Scritto con la porta chiusa e mostrato con la porta semi-aperta, quel tanto che basta per far entrare quello spiffero che mi costringe a ricordare di tenere sempre la pancia coperta.

FERMATA A RICHIESTA

Era tardi. Era maledettamente tardi.
Sarebbe dovuto uscire prima, staccare dal lavoro, non accettare quelle due ore di straordinari. Era tardi, tardi sul serio.
“Perché sei stato così stupido, David? Perché?” – pensò tra sé e sé.
Sì, già, per i soldi. O forse c’era anche qualcos’altro. Scacciò quest’ultimo pensiero, cercando di fare mente locale sulla sua situazione.
Aveva perso l’autobus, e sarebbe tornato a casa chissà quando. Forse loro avrebbero capito, e l’avrebbero perdonato. Forse.
Avrebbe dovuto aspettare almeno mezz’ora, prima che ne passasse un altro. Decise di aspettare sotto la pensilina dell’autobus, trafitto dalle schegge di vento che lo colpivano nonostante il suo impermeabile e i suoi pantaloni pesanti. I suoi occhi si assottigliavano sempre di più, mentre i suoi capelli a caschetto seguivano il flusso delle folate di vento. Se non fosse stato così stanco, magari poteva tornare a casa a piedi. Se la sua proverbiale pigrizia non gli avesse procurato una pancia sempre più pronunciata, magari avrebbe avuto il fiato necessario per potersi incamminare senza doversi fermare dopo qualche passo. Aveva 35 anni, ma il suo fisico ne dimostrava almeno trenta in più. Ma, del resto, per fare l’impiegato non erano richieste grandi doti atletiche. E a lui stava bene così.
Era ancora lì, sotto quell’inutile pensilina, solo nella sera della città, quando lo vide.
Non si sbagliava, stava correndo proprio nella sua direzione. Lesse ancora una volta il numero sul display, per essere sicuro. Ma non si era sbagliato.
Un autobus stava correndo verso di lui.
Ed era proprio il suo.

“Mi scusi, passa per Via Ionesco, vero?” – chiese all’autista, non appena fu a bordo. In fondo l’autista poteva aver fatto confusione, poteva aver sbagliato a scrivere il numero della linea sul pannello. In ogni caso, era meglio chiedere.
Da dietro la sua postazione, l’autista, un uomo sui cinquant’anni dal viso grassoccio e l’aria rassegnata, si voltò stancamente verso di lui. Guardò David per qualche secondo, indeciso se chiudere la porta e ripartire o far scendere l’uomo. Decise di aspettare qualche secondo, e allontanò le dita dai pulsanti. C’era qualcosa che non gli quadrava.
“Mi faccia capire, lei sa dove andare?” – gli rispose sospettoso.
“Sì, devo scendere alla fermata di Via Ionesco. L’autobus passa da lì, vero? Questo è il 57? Perché io sapevo che il 57 sarebbe arrivato tra mezz’ora, e non capisco se…”
“Sì, questo è il 57. Perciò adesso scenda subito da qui” – gli rispose l’autista, secco.
“Come, scusi? – chiese David, stupito – Io stavo cercando proprio questa linea!”
“Non ha capito. Lei non può viaggiare su questo autobus. Questa è la corsa dei pazzi, non quella degli impiegati. La corsa degli impiegati c’è stata almeno due ore fa, mi dispiace…” – rispose l’autista, indicandogli pacatamente la porta ancora aperta.
“Ma mi prende in giro? Non esiste una corsa dei pazzi, né tantomeno una corsa degli impiegati! Ognuno prende l’autobus che gli pare!” – David si stava alterando, ma cercava di non darlo a vedere.
“Oh, mi creda, esistono e come!!! Guardi, se le può essere d’aiuto esiste anche la corsa mattutina delle casalinghe e quella pomeridiana degli studenti che non vogliono studiare e preferiscono farsi un giro in centro” – rispose l’autista, senza scomporsi minimamente.
David non sapeva cosa rispondere. Avrebbe riso volentieri, complimentandosi con l’autista per lo scherzo e la fantasia. Ma lo sguardo serio dell’uomo, le porte ancora aperte, e l’autobus ancora fermo davanti alla pensilina lo stavano facendo preoccupare.
“Ok, allora – provò David,assecondando l’autista – mettiamola così: io sono pazzo, ok? Matto da legare, sul serio! Pensi che sono stato ricoverato in un ospedale psichiatrico per ben tre anni e sono uscito solo perché…”
“Mi ascolti lei, invece – La voce dell’autista era autoritaria, severa – Lei non è affatto pazzo. Le ho chiesto se sapeva dove andare, e mi ha risposto di sì. Un pazzo non sa mai dove sta andando. Quindi lei adesso scende da qui ed evita di crearmi altri problemi, d’accordo?”.
“Charlie – lo interruppe una voce dal fondo – andiamo, Charlie, metti in moto. Il ragazzo è a posto, ci parlo io con lui. Tu guida questo benedetto autobus e cerca di portarci a casa!”
L’autista, sbuffando, guardò nello specchietto retrovisore. Poi schiacciò i pulsanti delle porte e, senza più degnare di uno sguardo David, rimise l’autobus in marcia per le strade della città.
David si voltò, guardando per la prima volta i viaggiatori dietro di sè. I sedili erano tutti occupati da anziani, barboni, extracomunitari. E tutti lo stavano fissando come si fissa un alieno. O, nel suo caso, un uomo sano di mente.
David provava un senso di vergogna, come se quello che fosse successo era colpa sua. Poi venne richiamato da una voce. La stessa voce che aveva convinto l’autista a ripartire.
“Ehi, ragazzo! Vieni un po’ qui, fatti vedere bene!” – gli urlò.
Si trattava di un vecchio, occhi vitrei nascosti dalla visiera di un berretto in feltro, pantaloni in velluto, giacca logora e un bastone tra le gambe su cui poggiava entrambe le mani. Poteva avere sugli ottanta, ottantacinque anni. Guardò David con occhi profondi, scrutando i suoi vestiti da impiegati e la sua aria da borghese. Poi gli sorrise, mostrandogli l’unico dente che la sua bocca potesse permettersi.

“Ma che ha quell’autista? Mi stava prendendo in giro o…???” – esordì David, sedendosi accanto al vecchio e decidendo di sorvolare sul pessimo odore emanato dall’uomo.
Il vecchio rise divertito.
“Chi, Charlie? – rispose – Da quando sono qui non l’ho mai visto prendere in giro nessuno… è semplicemente pazzo, come tutti noi…”
“Pazzo??? Andiamo, non mi dirà che…”
“Che questa è davvero la corsa dei pazzi? Certo, ragazzo! Questa corsa è riservata a noi, siamo noi gli unici a poter viaggiare a quest’ora!!!” – rispose il vecchio, pacato.
“No, non ci credo!”, intervenne David, perdendo la pazienza. “Che cosa vuol dire? Che la sera uscite dal manicomio e vi fate il vostro bel giretto turistico? Invece di passare la vostra ora d’aria a guardare la televisione rubate un autobus e ve ne andate a spasso su un autobus tutto vostro come se niente fosse???”.
Il vecchio rise, divertito.
“Pensi davvero che per essere pazzi bisogna essere ricoverati in qualche ospedale psichiatrico come dicevi prima tu…”
“David…”
“Vedi, David – riprese il vecchio – essere pazzi non vuol dire necessariamente avere qualche rotella fuori posto…basta molto, molto meno…”
“Ah, sì? Cosa? Fammi qualche esempio! Perché non mi racconti come si fa a diventare pazzi? Si fa una domanda di ammissione a qualche specie di club e si vede se si può girare comodamente su un autobus per le strade del centro???”, rispose, alterato.
“Non è difficile, David – rispose il vecchio, ignorando la reazione del ragazzo – vedi, in fondo ognuno di noi ha dentro una parte di sé pronta a esplodere da un momento all’altro…c’è chi aveva un lavoro che poi ha perso, chi aveva un amore che l’ha lasciato…ed è in quel momento, in quel preciso momento, che si rischia di diventare passeggeri di questa corsa. Tu sei mai stato lasciato, David?”
Il ragazzo distolse lo sguardo dal vecchio.
“Io…io…in verità no…” – rispose imbarazzato.
Questa volta non fu il vecchio a rispondere, ma un uomo seduto poco distante da loro. Un barbone sui sessant’anni, avvolto in un impermeabile logoro e in un cappello che gli copriva buona parte del viso. L’uomo, che fino a quel momento era rimasto in silenzio seguendo dal finestrino il viaggio dell’autobus, si era appena voltato verso i due uomini.
“Già immagino il tipo…fidanzato al liceo con la bruttina della classe, quella che non vuole nessuno…lui sa che non può aspirare a niente di meglio, lei anche…si fidanzano, sapendo già dall’inizio come andrà a finire…saranno costretti a sposarsi, passeranno le loro stanche vite insieme, giorno dopo giorno…senza mai avere il coraggio di capire che quello che provano l’uno nei confronti dell’altra non è amore, ma una strana forma di indifferenza e pietà…un classico…”
L’uomo si era rivolto a David, e, nonostante le sue parole, il suo tono non era quello di uomo che vuole ferire.
“David, ti presento Jacob – intervenne il vecchio – lui è il più matto di tutti…ha una forma di pazzia dalla quale tutti vogliono tenersi alla larga...Jacob ha il potere di dire sempre la verità…”, disse.
David guardò l’uomo, poi abbassò la testa proprio un attimo prima che una vampata di calore lo rendesse rosso in volto. Jacob aveva detto la verità.
Il vecchio guardò David con affetto, fissandolo con un sorriso paterno.
“Bè, David, buon per te…l’amore, in fondo, non è quello che raccontano nei libri…puoi ritenerti fortunato, ragazzo mio… - disse – ma dimmi, David…l’affetto di un genitore? Quello l’hai mai perso?”
Ancora una volta, fu Jacob a intervenire.
“Evita certe domande, non è il caso di fargliele…non si tratta di averlo perso o meno…il ragazzo non l’ha mai conosciuto, l’affetto di un genitore…”, disse.
“Jacob, smettila! Penso che David sappia parlare da solo”, gli rispose il vecchio, sorridendo affabile verso David.
Il ragazzo era a testa bassa, incapace di rispondere.
L’autobus intanto proseguiva la sua corsa, permeato da uno strano silenzio che sembrava rendere ovattato perfino il frastuono Nessuno dei passeggeri, poco più che ombre sedute immobili ai loro posti, sembrava interessato alla conversazione.
“Io…no, non l’ho mai perso”, rispose con un sussurro David.
“Allora cos’hai, David? Cos’è che fa di te un uomo?”, chiese a bassa voce il vecchio.
“Ecco…io…io ho il mio lavoro…i miei sogni…”, rispose il ragazzo.
“A-ah! – urlò trionfante il vecchio – Perfetto! Ci siamo, David! I tuoi sogni! Bene bene bene! Adesso dimmi qualcosa in più!!!”
“Bè – rispose impacciato David – io sogno di fare carriera come manager, di diventare famoso, di fare soldi…magari trovare il grande amore e…”
“No, ragazzo, no…abbiamo detto di lasciare da parte l’amore…quello è un diversivo, una scusa…noi adesso parliamo di sogni, non di invenzioni…”, lo ammonì il vecchio.
“Bè, ecco…non so che dire…sogno una bella casa, come tanti altri…un…”, rispose, senza riuscire a finire la frase.
“Charlie – strillò di colpo il vecchio all’autista – Cosa ti dicevo, Charlie? Il ragazzo è a posto! Ha dei sogni! Mi hai sentito, Charlie? Il ragazzo ha dei sogni!!!”
“Sì, sì – strillò di rimando Charlie, scoccando un’occhiata dallo specchietto retrovisore – L’ho già sentita questa storia… si fa presto a dire che si hanno dei sogni!!!”
Il vecchio guardò comprensivo David.
“Charlie non ha tutti i torti, ragazzo…ciascuno di noi ha i suoi sogni…ma per essere davvero pazzo bisogna anche riuscire a tenerli in vita…”, disse.
“Ma…io ci provo, io cerco di lottare ogni giorno…”, rispose David, in difficoltà.
“Ne sei sicuro? Anche quando sembra andare tutto storto? Anche quando sembra non esserci più una sola ragione per andare avanti?”
“Ecco…io...”.
David alzò di scatto la testa contro il vecchio
“come posso fare per diventare pazzo?”, continuò.
“Vuoi davvero saperlo?”, rispose il vecchio, sorridendogli.
Intervenne Jacob, lo sguardo oltre il finestrino, la voce dura.
“Lascia perdere, è tutta fatica sprecata”, disse.
“Cosa? – proruppe David scattando verso di lui – No, ehi, perché? Che vuol dire???”
“Perché sei come tutti gli altri, ecco perché!!!”, gridò Jacob, voltandosi verso di lui.
“Vuoi che ti dica come la vedo? – continuò l’uomo, severo - Hai fatto tardi da un lavoro che detesti, solo per poter fare gli straordinari e fare bella figura col tuo capo, magari sperando che ti dia una promozione e faccia aumentare magicamente i numeretti sulla tua busta paga…vivi in una casa di merda, vivi una vita di merda e ogni giorno pensi di mollare tutto…ecco perché non vale la pena, David!”, disse.
“E’ davvero così, David?” – ancora una volta, la voce del vecchio era carica di umana comprensione.
“Lascialo stare, davvero – continuò Jacob – è solo salito sull’autobus sbagliato…non ha niente a che vedere con noi!”, disse.
“Ma io voglio diventare come voi! Io voglio far sopravvivere i miei sogni! Insegnatemi come posso fare!”, disse David, quasi in lacrime.
Come se avesse sentito la sua voce, un uomo seduto a metà corridoio, si voltò verso di lui. Era un extracomunitario sulla trentina. Pakistano, forse. Un tipo comune, come tanti.
“Ehi ragazzo! Guarda che abbiamo appena superato la tua fermata”, gli gridò.
David lo osservò per un istante, poi distolse lo sguardo.
Tornò a guardare il vecchio, supplichevole.
“Non me ne importa niente della mia fermata! Voglio diventare come voi! Insegnami come si fa… per favore…”, gli disse sottovoce, quasi supplicandolo.
Il vecchio si limitò a lanciargli l’ennesimo sorriso.
Al suo posto, rispose Jacob. Questa volta, l’uomo si rivolse ai due ruotando il busto.
“Vuoi sapere la verità, David? Scendi da questo autobus finchè sei in tempo. Perché non gliene frega niente a nessuno, di diventare come noi. Neanche a te, credimi. Ti conviene dimenticare quanto accaduto, gettare nel mare i tuoi sogni e fare la vita che fanno tutti gli altri. Niente sogni, niente aspettative, niente ideali. Vuoi sapere perché la maggior parte della gente fa così? E’ presto detto. Per un’unica, semplice ragione. Perché conviene. Perché è più facile. Perché è l’unica strada che tu possa seguire se vuoi ottenere qualcosa da questa vita di merda. Vuoi diventare come noi? Accomodati pure, David! Vuoi rinunciare al tuo lavoro, ai tuoi soldi, alla tua macchina e alla tua casa? Dai, sì, fallo pure! Ma sappi che questo non ti porterà da nessuna parte! Ti considereranno pazzo, ti guarderanno come si guarda una persona che ha qualche rotella fuori posto!!! E se qualche volta proverai a tirare fuori la parola “coscienza” e “anima”, non farai altro che farti ridere dietro! Sei sicuro di volerlo fare, David?”, disse Jacob.
David esitò un attimo. Guardò l’uomo, poi si voltò verso il vecchio. Chiuse gli occhi per un attimo, poi li riaprì deciso.
“Sì, sono sicuro”, disse.
“Molto bene – sentenziò il vecchio – “Ma sappi che questo significherà perdere tutto. La tua reputazione, il tuo status sociale…e anche il rispetto da parte delle persone normali”.
“Non mi importa – rispose sicuro David – ho preso la mia decisione”.
“Molto bene. Allora da domani comincerai il tuo percorso”, disse il vecchio.
“Eh? Cosa? Perché domani? Non possiamo iniziare adesso?”, rispose David, allarmato.
“No, ragazzo – rispose il vecchio – per stasera il nostro viaggio termina qui. Siamo arrivati al capolinea, non te ne sei accorto?”, disse.
In effetti, l’autobus si era appena fermato. Senza che David ci avesse fatto caso, Charlie aveva spento il motore ed era sceso a fumarsi una sigaretta. Gli altri passeggeri, in silenzio, stavano scendendo uno alla volta.
“Torna a casa, David…tua moglie ti starà aspettando”, concluse il vecchio, lanciandogli un’ultima occhiata.
David scese dall’autobus. Ormai era notte, e per la strada non passava quasi più nessuno. I passeggeri dell’autobus si stavano allontanando a piedi, senza neanche degnarsi di uno sguardo, ognuno per la sua strada. David fece un cenno all’autista, poi si incamminò verso casa. Per sua fortuna, la strada da percorrere era poca.

“Si può sapere che cazzo di fine hai fatto, David??? E’ da un’ora che ti stiamo aspettando! Un’ora!!! Lo sai cosa vuol dire restare anche solo un’ora da sola con lui??? Ti rendi conto di cosa significhi per me, eh???” – Sonia non l’aveva presa bene. Non aveva preso bene il suo ritardo, il fatto che avesse dovuto imboccare Thomas tutta da sola.
Già, Thomas…
“Sonia, posso spiegarti… ho fatto tardi a lavoro…”
“Vaffanculo, David! Non ho bisogno delle tue scuse di merda! Lo so che non te ne frega un cazzo di noi, non te ne frega un cazzo di nostro figlio! Esci la mattina alle otto, torni qui dopo più di dodici ore e hai il coraggio di dirmi che puoi spiegarmi??? Cosa cazzo c’è da spiegare?”
“Sonia, il capo mi ha chiesto se potevo fare gli straordinari…mi avrebbe pagato, e sarebbero stati tutti soldi in più per lui… per pagare le cure…”
“Le cure! Le cure! Non esistono solo le cure! Esistono anche i genitori, lo sai? David, nostro figlio ha bisogno di noi, ha bisogno di te… tu sei suo padre… ma è come se non esistessi!!! Che razza di uomo sei, David? Dimmelo!!!” – urlò Sonia, furiosa.
David abbassò lo sguardo, colpevole.
“Sonia, Thomas vive in un mondo tutto suo – disse a voce bassa - ho provato a entrarci, ho cercato di stabilire un contatto con lui...ma è stato tutto inutile…lui non mi vuole…ha i suoi amici immaginari, il suo mondo immaginario… non vuole un contatto con la realtà…non vuole un contatto con me…”
A quelle parole, Sonia si sciolse. Sospirò, poi abbracciò il marito a testa bassa, senza avere il coraggio di guardarlo.
“Non è vero, e lo sai… forse avete solo bisogno di trovare il modo di comunicare… in ogni caso adesso è nella sua stanza, ti sta aspettando” – gli disse piano.

“Ciao Thomas!”.
La stanza del bambino appariva ancora più piccola, all’ombra dell’abat-jour ancora accesa sulla scrivania. Dalle pareti, i disegni di Thomas, unico mezzo di comunicazione del figlio con il mondo reale, osservavano David severi. Nei disegni di Thomas, la figura del padre era completamente assente. Non c’era mai un papà, nelle raffigurazioni dei suoi amici immaginari. Ogni volta che David guardava quei fogli appesi alle pareti, sentiva una morsa stringergli il cuore. Era davvero tutta colpa della malattia di suo figlio? O era anche colpa sua, della sua assenza? In fondo, da quando aveva iniziato le cure, Thomas aveva fatto dei progressi. Aveva iniziato a parlare, era riuscito a trovare un suo modo di comunicare con il mondo esterno. Parlava con sua madre. Parlava con i suoi nonni. Parlava con il medico, ogni tanto. Ma con lui non parlava mai.
Seduto alla sua scrivania, Thomas stava disegnando. Quando sentì il padre entrare, non si voltò neppure.
David tentò un sorriso, ma non ci riusciva. Era una di quelle situazioni in cui non sapeva cosa dire, cosa fare. Era tutto troppo grande, per lui.
Ma, questa volta, fu Thomas a parlare.
“Papà…ho fatto un sogno…”
“C…cosa?!?” – David strabuzzò gli occhi, incredulo. Per la prima volta, Thomas si stava rivolgendo a lui.
“Eri su un autobus… insieme ai miei amici… io ero lì, ma tu non mi vedevi…ma io ti guardavo, e sentivo quello che dicevi, e sapevo che tu non mi volevi bene…”
David ebbe un sussulto. L’autobus…gli amici…come faceva Thomas a sapere? Mise da parte i suoi pensieri, cercando, per una volta, di concentrarsi su suo figlio.
“Ma…ma io ti voglio bene, Thomas” – provò a dirgli con tenerezza, accarezzandogli i capelli.
“Sì, alla fine del sogno sì… - rispose il bambino - tu scendevi dall’autobus e tornavi a casa, da me…e io sapevo che mi volevi bene…” – gli rispose il figlio.
Poi si voltò, tendendogli la mano.
David, in lacrime, strinse con dolcezza la piccola mano del figlio. Nessuno dei due disse più niente.

Da quel giorno, David non fece più ore di straordinari. Usciva dall’ufficio al solito orario, prendeva l’autobus al solito orario, tornava a casa al solito orario, passando la serata con Sonia e Thomas.

Thomas fece diversi progressi. Nei suoi disegni iniziarono a comparire le figure di alcuni uomini grandi e forti, che con le loro braccia proteggevano il corpo di alcuni bambini.

Della corsa dei pazzi, David non seppe più nulla.

1 commento:

Paola ha detto...

Continui a dire che è solo una versione iniziale, e che andrebbero aggiustate un pò di cose...
Ma a me non importa...
Perchè questo racconto è particolare...
E mi ha colpito dalla prima volta in cui l'ho letto, qualche mese fa...
Perchè l'hai scritto di getto, e parla di qualcosa che sai raccontare bene...
Paure, emozioni, follia...
Tutto quello che si agita dentro di noi e che è così difficile tirare fuori...
Certo, in tanti potrebbero dire che è il solito raccontino retorico buonista, ma a me non importa...
Sei riuscito ad emozionarmi e già questo mi basta...
Anza, basta solo questo...

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