mercoledì 3 agosto 2011
(1)
Mi ridestai nella mia casa, come ogni santissimo giorno. Però questo era sicuramente diverso da tutti gli altri. C’era Walter che mi aveva posizionato sul mio letto, mi aveva anche diligentemente tolto le scarpe, e sbottonato la camicia. Per fortuna si era fermato a questo. Mi sentivo intontito, come se la sera prima avessi bevuto una decina di birre doppio malto. Ma non era stato così. Ero crollato dopo una notizia che non avrei mai creduto di poter ricevere e dallo svenimento il mio corpo è passato al sonno pesante, quello che fa recuperare da tutti i mali, quello che non avevo da tempo. Mi alzai, andai in bagno, mi sciacquai la faccia, mi misi una maglia comoda e entrai in salotto. C’era Walter che dormiva sul divano, i suoi capelli creavano archi di diverse dimensioni così strani che la Nasa poteva pensare fossero messaggi di alieni, tipo i cerchi nel grano. Si svegliò dopo che ebbi fatto il caffè, l’odore pungente della caffeina l’aveva fatto sobbalzare.
“Buongiorno” – mi disse, stropicciandosi gli occhi e provando ad abbassare le creste con la mano destra.
“Buongiorno a te caro, la scorsa notte sei stato magnifico!” – gli risposi, facendogli l’occhiolino.
“Scherza tu, che puoi scherzare. Io un’esperienza così la stavo per vivere!”.
“Butti sempre in mezzo quella storia, segno che ti è rimasta impressa. D’altronde sai meglio di me come si dice: “se non provi non puoi mai sapere quale delle due cose sia la migliore” o no?”.
“Sinceramente” – disse mentre si rivestiva – “vivo nell’ignoranza e sono molto più felice”.
“Contento tu, non sai cosa ti perdi.” – risposi, facendo la parte di un’attrice di cabaret degli anni 30.
“Allora, ci hai pensato?” – mi chiese, mentre si sedeva accanto a me.
“E’ una cosa pesante, molto pesante. Ma sei sicuro sia fattibile? Non è un altro sogno che finirà infranto contro un muro?”.
“Uomo di poca fede. Ti ricordi quando ci sedevamo al pub sotto casa e immaginavamo la nostra esistenza in altri luoghi, in altri posti, con altre opportunità e avventure? Il momento ora è giunto, e io vado. Pur senza di te.”
“Ma non pensi che hai una famiglia, una moglie, dei figli che ti aspettano? Come puoi andartene così senza pensare ad altro se non a te stesso?” – gli domandai, scuotendomi da quel grado di apatia che avevo raggiunto negli anni.
“A questo non c’è problema. Non sentiranno assolutamente la mia mancanza. Perché non se ne accorgeranno nemmeno. Vieni da me, che ti spiego. E portati almeno un ricambio che poi, se vorrai, si partirà.” – ogni volta che ripeteva quel verbo il mio corpo reagiva allo stesso modo: era sempre vicino allo svenimento. Mi feci forza, preparai una piccola borsa da viaggio, chiamai al lavoro dandomi malato e salii nella sua macchina. Con migliaia di idee e ricordi nella testa.
Ricordi. Sono ricordi belli quelli di scuola quando sei tartassato sempre dai ragazzi più grandi di te? Certo che no. Ma sono ricordi belli quando, finito quel calvario, ti rendi conto che quegli stessi ragazzi si sono trasformati, o forse sono sempre stati, il lerciume della società. Gente che è finita a fare lavori degradanti perché non hanno mai voluto impegnarsi, o perché contavano troppo sui soldi dei genitori abbienti che poi hanno perso tutto e hanno distrutto la generazione successiva. E in quella scuola, ogni altra “vittima” dei bulli, è da considerarsi subito tua amica. Questo era Walter, il cosidetto secchione. Quello che studiava tutti i giorni anche ciò che non doveva studiare, l’appassionato di fumetti, fantascienza, tecnologia. Il mio perfetto compagno di giochi. Ne inventava parecchi, così tanti, che avrei pensato un giorno l’avrebbe fatto come mestiere. Così è accaduto. La sua ditta di giochi da tavolo è la migliore del Paese e in Europa. Ha fatto un sacco di soldi, Walter, ma non li è mai venuti a depositare nella mia banca. Non avevo mai capito il perché, fino a quel giorno.
Walter aveva una passione innata anche per gli esperimenti. Un giorno, o una notte, qui i ricordi dovuti all’abbondanza di alcool annebbiano la mia mente, stavamo al nostro consueto pub a chiacchierare del nostro sicuro hobby comune: le serie televisive. Certe volte immaginavamo che delle telecamere ci inseguissero costantemente durante le nostre semplici vite. Immaginavamo le risate pre-registrate delle sit-com anni 70. Le musiche di sottofondo incalzanti dei serial di mistero. Le meravigliose coreografie di gruppo nei musical. Era un sogno, il nostro, quello di vivere la nostra vita come se fosse un telefilm, che non è questo gran desiderio, a dirla tutta. E’ tutta finzione quella che si può vedere in televisione ma quella finzione ti fa stare bene. E’ bello vedere nel telefilm giallo che il cattivo viene, al novantanove per cento delle volte, arrestato. E’ bello vedere l’amore della propria vita ricambiare i propri sentimenti, è bello vedere un gruppo di amici sostenersi sempre, anche dopo orrendi litigi. Non pensavamo certo che quegli “amici” avessero un contratto per sostenersi, che le persone “morivano” solo perché non avevano rinnovato sempre un maledetto contratto e che tutti gli amori, alla fin fine, erano solo frasi su un copione. L’avremmo capito più tardi, ma non per questo avremmo smesso di sognare anche noi di farne parte.
Passeggiando nella memoria dei tempi andati arrivammo a casa di Walter. Ci corse incontro Leo, il cane di famiglia.
“Come l’angelo bianco del “Streghe”, il marito di Piper, giusto?” – domandai.
“Ci hai azzeccato bello mio.”
In effetti Leo era uno splendido husky tutto bianco con gli occhi di un blu lucente quasi ipnotico. Mostrava affetto a chiunque lo volesse accarezzare ed io ero uno di quelli. Rita mi salutò con entusiasmo abbracciandomi.
“Ciao quasi cognato.” – mi disse ridendo.
“Ciao quasi cognata.” – risposi allo stesso modo.
Rita era bella, di una bellezza soffocante ma nello stesso tempo umile. Non indossava minigonne strettissime o lunghi vestiti con spacchi abnormi sulle spalle. Si vestiva in modo semplice e nello stesso tempo era sexy senza nemmeno volerlo essere. Nelle serate di festa, o nelle occasioni importanti, l’unico lusso che si concedeva era una scollatura leggermente provocante. Il resto lo dedicava esclusivamente a suo marito, uomo fortunato aggiungerei.
“Amore mio, basta con questi strusciamenti che inizio a manifestare ondate di gelosia, sia chiaro”. – tuonò Walter in modo scherzoso.
“Tu? Geloso? Posso arrivare in camera da letto con Johnny Deep già mezzo nudo e tu l’unica cosa che sapresti dire è: “complimenti per la scelta, Rita”. – rispose lei, perennemente divertita.
“E’ perché so che tu sai scegliere solo il meglio, cara mia.” – e le scoccò un bacio sulla bocca appassionato – “ora scusami ma devo scendere giù con Daniel, ci vediamo più tardi.”
“Ah, il tuo scantinato delle meraviglie. Chissà mai cosa ci terrai lì dentro. Un giorno o l’altro son sicura che ci troverò un harem con chissà quante fanciulle. E una sauna per rilassarsi tra una e l’altra.” – e se ne andò, ancora più divertita. Era pure simpatica Rita, l’unico difetto che aveva, ma non si può chiamarlo difetto, era che era ormai quasi cieca. Leo, infatti, era il regalo che Walter gli aveva fatto per avere qualcuno che la accompagnasse quando voleva farsi qualche passeggiata solitaria, o per difesa personale. Walter ci soffriva, ma non lo voleva far vedere.
“Scendiamo” – disse, con una piccola goccia di lacrima che scendeva dall’occhio sinistro.
“Scendiamo” – ripetei senza accorgermene, curioso ed impaziente come non ero mai stato in tutta la mia vita.
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