giovedì 29 aprile 2010
Attimi intensi
Secondo racconto del concorso "Blusubianco". Il primo, quello della scorsa settimana, non è stato nemmeno pubblicato nella sezione "tutti i racconti", si vede che non aveva le credenziali per essere un racconto o perlomeno un "tutti". Per questo, invece, c'è la felicità dell'avvenuta pubblicazione a questo link, ma tanto è lo stesso racconto che pubblico tra un paio di righe, indi dove lo leggete leggete non fa niente, basta che perdiate cinque minuti della vostra vita appresso al sottoscritto. Vi ringrazio anticipatamente.
L'incipit dettato dal concorso è in corsivo, il resto è opera mia.
Caterina dice che aspetta ogni mercoledì a partire dal mercoledì sera. Che è il suo piccolo momento di piacere. Io non mi faccio illusioni, però: dice tante cose. Quando arrivo ha già messo al loro posto i pezzi sulla scacchiera e i cuscini, visto che giochiamo sul pavimento e ogni partita dura un’ora o più. “Non tocca a me il nero” faccio, come ogni volta. “Si invece” dice lei, accarezzando i suoi pedoni bianchi come se fossero un piccolo esercito del bene. So che non posso controbattere, la adoro troppo. Ogni volta che la guardo, rivedo in lei tutta la mia vita e tutti i miei sbagli, e anche l’unica cosa buona che ho fatto: lei.
Iniziamo la partita con i due passi in verticale dei pedoni, solita mossa di ogni mercoledì. Lei sorride, anche se non faccio battute, se non parlo. Lei sorride perché è felice di essere qui e forse io sento di non meritarlo.
“Il cavallo è uscito dalla sua stalla e mangia l’alfiere in c4” dico, come ogni volta. Lei ride ancora. Anche se si aspettava questa battuta, anche se l’ho ripetuta più e più volte, lei ride. Lei la adora. Quando sorride la ricoprirei di baci, ma non posso, non qui, non adesso.
“Attenzione signor Kasparov, il pedone si mangia la torre!” mi dice, e mi risveglia da quel limbo dove ero caduto guardando il suo viso, assomiglia ancora oggi in tutto e per tutto a Chiara. Diventerà una ragazza bellissima.
“Ha perfettamente ragione, signor Karpov, mi ero assurdamente distratto” in un certo qual senso mi scuso, poi osservo il suo sguardo un po’ adirato e mi correggo “Oh, mi scusi, signorina Karpov”. Sorrido anche io, per una volta e mi accompagna con una piccola risata. Che dolce sentirla ogni settimana, che dolce attenderla per ogni giorno. Che dolce sperare che lei condivida la mia attesa.
“E con questo è scacco al re, l’alfiere superstite ha dimostrato grande coraggio, non credi?” chiede lei, piena di eccitazione per la partita quasi conclusa.
“Riconosco il coraggio e ci aggiungo anche un po’ di incoscienza, piccola mia, il tuo alfiere superstite ora è spacciato, il mio cavallo come fieno se l’è mangiato!” rispondo, con una rima inventata al momento. Senza farlo apposta. Ottengo ancora un’altra risata. Ho sempre desiderato un mondo alimentato a risate, sarebbe sicuramente un posto felice. Cosa che questo luogo non è.
“Ma non ti sei reso conto che il piccolo pedone è arrivato in fondo” mi dichiara lei, cercando anch’essa di fare la rima. Quel pedone mi ha distrutto quasi tutti i pezzi, dannazione. Se perdo questa partita mi raggiunge nelle vittorie. Non posso concederglielo. Poi vorrebbe la ricompensa, e io non posso dargliela.
“Ed eccoti di nuovo la tua regina, fanne buon uso stavolta” anche se spero il contrario. Mi ritrovo con pochi pezzi e una regina intrappolata. Lei dispone di più pedoni ma meno pezzi migliori. Devo iniziare a fare piazza pulita, costi quel che costi. “E il primo pedone è andato via, avrà avuto un impegno” dico, e noto le sue guance arrossate, si sarà imbarazzata vedendo Aldo dietro di me.
“Ti piace ancora il caro Luigi, piccola mia?” sorrido felice. Non so perché ma questa cosa mi da un enorme piacere.
“Si, però non lo vedo da un po’, puoi chiedere al signor Aldo se viene a casa da me?” e le guance si fanno di un rosso fuoco, che colpisce l’intero viso.
“Dopo la partita, ci penso io. Non ti preoccupare. Ora continuiamo la partita, stiamo per finire no?”
“Si, purtroppo” e si rabbuia. Di nuovo. Come ogni mercoledì. Come ogni settimana. Come da mesi e anni lei si intristisce perché sa che il tempo a nostra disposizione è finito, o quasi. Che dovrà attendere altri sette giorni prima di vedere me, suo padre. Che dovrà pagare lei, la mia piccola, per i miei peccati, per i miei errori. E dovrà vivere un’esistenza lontana dal sottoscritto per ancora un bel po’. Altri tre anni, dicono, e sono fuori. Fuori da questo luogo di tristezza e di solitudine. Perché siamo tanti ma siamo tutti soli. E me lo merito di vivere qui, di piangere in solitudine nella mia cella mentre penso a lei lontana da me, in un’istituto che non è fatto per lei. Sola, a 8 anni, senza un padre e una madre. Chiara, la mia bellissima Chiara, è andata via, volata verso un mondo migliore spero. Due anni fa, tra mille sofferenze, contro un nemico che non poteva sconfiggere. Io invece sono qui, da cinque anni, e attendo la fine della mia pena. Una rapina a mano armata con pistole giocattolo, niente di serio insomma. Peccato che il vigilante della banca sia morto d’infarto, quando noi siamo arrivati. Non ce l’aspettavamo, non lo sospettavamo. Ci siamo ritrovati lì, attorno a lui, a pregare per i nostri peccati. Come non abbiamo mai fatto. E forse questo mi ha salvato da una pena immensamente più grande e mi da la forza per attendere ancora un futuro migliore: il giorno in cui uscirò e andrò a vivere con la mia piccola Caterina, quel giorno le permetterò di vincere e di pareggiare le mie vittorie e così potrò dargli la ricompensa pattuita: una vita assieme. Quello che lei spera ogni giorno, da quel che sento. E che io, ora come ora, non posso dargli.
“Scusami piccola mia, ma anche quest’altro pedone è andato via. E siamo a ben quattro consecutivi, la tua armata è vicina alla fine, suppongo” mi fa una linguaccia con il faccino arrabbiato, ma dura solo un’istante poi ritorna a sorridere.
“Io lo so che tu sei più forte papà, ma una volta o l’altra ti raggiungerò, te lo prometto” e intanto le dichiaro scacco matto. E concludo la sfida.
“E io attenderò quel giorno, quale fosse il più prezioso per me. Vieni qui, piccola mia” ogni abbraccio è una lacrima, per me. Perché vorrei che durasse per una settimana intera, ma purtroppo non accade mai.
“Caterina, è ora” le dice Lucia, una ragazza del servizio civile dove la mia piccola vive. E’ da sei mesi che viene ogni volta ad accompagnarla da me e si commuove ogni settimana, aldilà degli errori commessi, qualcuno dalla mia parte penso di averlo. Cate mi lascia piano piano e stringe le mani di Lucia, forte forte. Le lacrime le scorrono, come ogni settimana. Le prendo gli scacchi e i cuscini e li infilo nella busta, gliela porgo e le do un bacio, in mezzo a quel lago di acqua salata che è la sua guancia. Mi sorride, ed è per me il miglior regalo che potessi mai avere. Le guardo entrambe andarsene dalla porta principale. Aldo, il poliziotto penitenziaro più simpatico della nazione, mi poggia una mano sulla spalla.
“Ti capisco, fratè. Ti capisco. O perlomento cerco di capirti”, è da quel “cerco” che si capisce la sua natura buona.
“Aldo, amico mio, mi fai il piacere di andarla a trovare con Luigi, in settimana? Le farebbe molto piacere” gli chiedo, come estremo favore.
“Certo che si, non ti preoccupare. Ogni tuo desiderio è un ordine, basta che non mi chiedi di evadere, sia chiaro” e mi strappa una risata. Non so come faccia ma è sempre così.
Ritorno in cella, guardo le foto della mia piccola e cerco di trattenere quelle lacrime che vogliono, insistentemente, far capolino dai miei occhi. Resisto ancora, segno una bella croce sul calendario e scrivo questo diario. Il primo giorno è passato. Ora ce ne mancano sette per un altro mercoledì.
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